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Le ragioni populiste e quelle di un realismo politico critico

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di NADIA URBINATI

Mameli e Del Savio rappresentano bene il nucleo teorico della mia posizione sul populismo, ma non riescono a dare sufficiente conto della ragione per cui rifiuto la logica faziosa del populismo e un realismo politico senza appello alla normatività, a ragioni universalizzabili.

E’ ragione di grandissima soddisfazione leggere recensioni intelligenti. Sopratutto quando in discussione vi è un proprio libro. Ringrazio dunque Matteo Mameli e Lorenzo Del Savio per la loro analisi del mio Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia (traduzione per il Mulino dall’edizione originale inglese uscita per Harvard University Press). La recensione mette in luce l’argomento centrale del lavoro e ne discute alcuni aspetti teorici, quelli soprattutto che più stanno a cuore a Mameli e Del Savio, ovvero il posto e il valore del populismo di sinistra. Il libro non discute i “generi” di populismo, ma vuole capire quale tipo di relazione il populismo instaura con la democrazia rappresentativa e costituzionale una volta conquistato il cuore del potere, ovvero una maggioranza elettorale e il  governo. Non mi occupo per tanto di dire che cosa questo strano animale chiamo populismo sia, anche perché a detta dei suoi stessi estimatori non è un’ideologia ma un modo di essere del potere democratico. Se così è, e sono anche io convinta che sia così, si tratta di studiare come si manifesta il potere populista in relazione allo stato e alle istituzioni democratiche. Premesso che le istituzioni in questioni sono quelle di una democrazia costituzionale e rappresentativa, nel libro cerco di studiare il modo in cui questo intero sistema è operato populisticamente. Destra e sinistra, sostengo, diventano categorie non determinanti quando si analizza il modo di operare di un leader e di un movimento populista al potere.

Vi è nella democrazia populista una caratteristica specifica che ha a che fare non con “destra” e “sinistra” ma con un modo di concepire, conquistare e tenere il potere; esso ha una visione “possessiva” delle istituzioni e delle procedure che le trasforma anche quando non le sovverte. Nel volume analizzo la trasvalutazione populista del fondamenti della democrazia: il popolo, la maggioranza, le elezioni e infine la rappresentanza. La logica di questa trasvalutazione è “fazionalista”, nel senso che il populismo porta in superficie ciò che opera nella dialettica politica, ovvero la lotta delle parti al fine di conquistare il potere.  La tensione, quel che nel volume chiamo il “gap” tra norma della generalità e la fattualità del potere, è l’ossigeno delle democrazie costituzionali, nelle quali dobbiamo distinguere un livello di “dover essere” e un livello dell’”essere”, cercando di approssimare il secondo al primo senza alcuna illusione di poter colmate quel gap. In questo sta, sostengo, la vitalità del conflitto politico democratico.

La logica populista intacca proprio questa tensione. Lo fa, prima di tutto, come il suo maggior teorico sostiene, Ernesto Laclau, liberando il ragionamento politico da ogni orpello “normativo” o di dover essere, e riconducendo al consenso effettivo, e quindi alla vittoria (in questo caso elettorale) la prova di legittimità. Pochi e molti, destra e sinistra lottano e si confrontano per conquistare il potere e a questo scopo costruiscono discorsi e alleanze sociali. Il populismo è da questo punto di vista identico con politica e con democrazia, scrive Laclau: è azione politica al suo meglio perché costruzione di un discorso ideologico egemonico; ed è democrazia al suo meglio perchè riposa essenzialmente sulla partecipazione di gruppi e cittadini e, infine, sulla battaglia pubblica e aperta per la conquista del potere.  Se poi si chiede ai populisti di destra e di sinistra perché il loro “popolo” sia quello “buono” o “vero” la risposta non viene ricavata da ragioni di principio o generali, come per esempio i principi di giustizia ed uguale libertà (che la democrazia sostiene e vuole) ma dalla rappresentazione di popolo proposta (ed eventualmente vittoriosa): il “vero” popolo. Populismo di destra e sinistra si appellano entrambi al popolo, e ciascuno sostiene che sia quello “vero” e impugnano una logica di iperrealismo che non vuole avere basi normative, secondo l’argomento per cui, basi normative equivarrebbe a basi morali, e quindi a una svalutazione della politica.

Alla base della visione populista vi è una una concezione della politica che non consente in effetti alcun giudizio politico di valore. E’ in questo contesto di radicale relativismo che la figura del leader diventa cruciale – è infatti la sua capacità (con l’aiuto di intellettuali o gruppi di sostegno o i media) di tenere insieme rivendicazioni e scontenti diversi e spesso anche contraddittori e a dare loro la fisionomia del “vero” popolo. Il popolo del populismo prende il nome del suo leader, ha scritto Laclau, che ha certamente ragione se la politica è costruzione della rappresentanza a scopo di conquista del potere. In questo populisti e teorici della democrazia minimalista o schumpeteriana parlano la stessa lingua: che problema c’è se una maggioranza produce Trump, fatto salvo che le elezioni si siano svolte senza brogli? Evidentemente non c’è nulla di che lamentarsi, e nulla da dire. Ha vinto un candidato che non ci piace, mentre piace molto a coloro che si riconoscono nel popolo “vero” di cui egli si è dichiarato il cavaliere.

Scrivono Mameli e Del Savio, “In questa prospettiva, non fa differenza che il popolo “vero” che il populista si propone di difendere venga identificato su base etnica (gli italiani doc, i “real Americans”) o a partire da criteri economici (i poveri, il 99%, i non-miliardari). Urbinati detesta il populismo di destra di Donald Trump e Matteo Salvini, ma non ha simpatia neanche per quello che alcuni chiamano il “class conscious populism” di sinistra. Urbinati afferma che la logica “fazionalista” del populismo non può “rivitalizzare la sinistra democratica” perché il fazionalismo può essere democratico solo in maniera deviata”. E hanno ragione. Senza principi politici di riferimento, chi vince ha ragione!

Se non che non hanno ragione, a mio modo di vedere, se poi mi fanno dire che “la sinistra democratica, se vuole evitare di sfigurare la democrazia, non può andar dicendo che gli interessi da difendere sono solo quelli dei meno abbienti, per esempio, e che i miliardari devono essere bollati come nemici”. Non hanno ragione proprio perché rifiuto il fazionalismo (Che nel libro distinguo da partiti o ragioni partigiane) e credo che il realismo politico non sia senza normatività. Senza fazionalismo, dicono i miei recensori, metto dei “vincoli alla lotta di classe e all’espressione delle rivendicazioni di chi, a torto o a ragione, si ritiene oppresso o svantaggiato”. Qui sta la mia distanza siderale dalla logica populista in nome di una concezione della società che è di classe e normativa ovvero ispirata a una visione di giustizia che ha l’ambizione della generalità.

Nella tradizione marxista, le ragioni della “classe operaia” sono ragioni universali, di giustizia e di emancipazione non solo per quel “vero” popolo, ma per tutti. Senza questa condizione normativa destra e sinistra non sono che armate su un campo di battaglia: la loro competizione assomiglia a quella dei gladiatori nel Colosseo. Come si può superare questo fazionalismo? Come si può riportare nella politica l’idea di una progettualità al servizio di una visione di società giusta? Secondo me, il populismo non ha alcun interesse a porsi questa domanda. Vincere a tutti i costi è per esso importante. Certo, può portare una larga colazione guidata da un leader plebiscitario al potere – e dopo? Se il successo del “vero” popolo sta nell’accidentalità di quel leader e quella narrativa, occorrerà presumibilmente che una volta giunto al potere, quel leader e quella narrativa abbiano una libertà d’azione incontrastata per tenere tutti gli alleati  e per stare al potere – i limiti del potere costituito sono orpelli, o oggetti di un’interpretazione giustificatamente faziosa.

Quindi, non è per nulla vero che dal rifiuto della parzialità passo a concludere che la parzialità delle multinazionali e quella degli oppressi siano la stessa cosa! Semmai, sono i populisti che potrebbero giungere sa questa conclusione visto che non vogliono portare ragioni normative al loro discorso e che la loro idea di politica fa perno essenzialmente sulla strategia egemonica vincente. Quel che mi sta a cuore non è una faziosità contro un’altra (troppo labile basare la vittoria della “buona” fazione su un leader carismatico!) ma invece riportare una visione della generalità di cittadinanza o di giustizia nel giudizio politico, la quale è l'anima della democrazia e non è né un orpello preso a prestito dalla morale né un discorso vuoto di principi.

Che cosa sono i “buoni ordini” di Machiavelli o l’interesse generale di Rousseau se non proposizioni di una generalità ispirata a principi politici (autonomia e uguale libertà ovvero autogoverno, condizione per mantenere la lotta politica sempre aperta) al fine di costruire un ordine politico ad essi coerente? La democrazia non può esistere senza questo assunto di generalità perché la sua costituzione non è come un codice della strada che come un vigile urbano regola una lotta rispetto alla quale resta neutro. Ecco perché mettere al centro il “gap” – la distanza e tensione tra obiettivo di generalità e lotta partigiana, tra i principi e chi li interpreta secondo la propria parte o il proprio punto di vista – equivale a mettere al centro il popolo democratico, che non è quindi “solo” un’alleanza di gruppi che si danno un obiettivo di vittoria. La distanza e la tensione tra popolo normativo e popolo politico, che perde di senso nel populismo, è secondo me il sale della politica democratica, il motore del conflitto politico che è conflitto sempre aperto non fra amici e nemici, ma tra avversari politici (partigiani amici, direbbe Machiavelli) che hanno obiettivi diversi perché interpretano la generalità (il principio di uguale libertà) da punti prospettici (o di interesse) diversi. Qui sta la radice del conflitto politico democratico, inclusivo e non ingessato ad un idea di popolo che è vera perché un leader forte la fa essere forte. In effetti, un discorso non semplicistico sul populismo ci porta alle scaturigini del realismo politico che è realismo critico in ragioni della norma che ordina la politica democratica e il giudizio: l’autogoverno e la potenza eguale di cittadinanza.

(14 maggio 2020)


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